Comune: Mirandola
Provincia: Modena
Edicolante: MI.CO. S.n.c. diNegri Milena e Poletti Corrado Viale Gramsci N°51 41037 Mirandola (MO)


Ricordo che un giorno mio padre mi disse: «Nella vita un uomo può cambiare tutto, due cose sole non deve cambiare mai: la squadra di calcio e l’edicola dove compra il “giornale”.»
Tutti i giorni che nostro Signore mandava sulla terra, mio padre si recava alla “sua” edicola, quella di Viale Gramsci, a Mirandola, per acquistare il giornale. Ma non un giornale qualunque: quel “giornale “.
Sempre e solo quello.
Se non c’era: «Soldi risparmiati!» Mia madre che i giornali li vedeva come fumo negli occhi.
«Vanno bene per una cosa sola: accendere la stufa al mattino.»
Anzi, due: pure il camino.
Mio padre era bifolco e povero da provare quasi vergogna, ma sapeva leggere e scrivere bene, e pure fare di conto. Aveva studiato fino alla quinta elementare ed era uno ci teneva ad essere informato: «su tutto quello che “accade nel mondo”», e poi, quello che gli dava maggior piacere, era avere sempre una risposta per ogni occasione. Sì, perché mio padre era uno che la lingua l’aveva lunga e quando la faceva girare erano dolori di pancia. Era uno che non si lasciava infinocchiare da nessuno; quando sentiva che era il momento di dire la sua, la diceva e non sempre erano suonate di mandolino. Era uno poteva fare a meno di tutto, ma non del “giornale”. E non è che avesse le tasche piene di spiccioli.
Spesso mi prendeva con sé, io seduto sulla canna della bicicletta, lui a pedalare. Perché mio padre non aveva la patente e nemmeno la macchina. Neanche la Lambretta.
Uno dei tanti ricordi che ho di quegli anni è Viale Gramsci.
Un viale lungo ed ombreggiato da due fila di platani, mi aveva detto che portava diritto fino alla Stazione dei treni.
I treni.
Non ne avevo mai visto uno. Mi aveva raccontato che erano delle grandi macchine e che andavano veloci per delle strade senza le curve.
Chissà come facevano.
Dovevano essere molto grandi.
«Come un biroccio?»
Di più, molto di più, mi rispondeva mentre pedalava.
Poi ricordo le fila dei rimorchi in attesa d’entrare allo zuccherificio, la strada ghiaiata e l’odore della nafta bruciata lasciata dai trattori. Ricordo le partite a briscola alla luce di qualche lucerna a petrolio attaccata alla ruota di un carro, le merende con pane e cipolla e l’esercito di zanzare che all’imbrunire calavano come fanti in assetto di guerra. Al mattino, invece, mi è rimasto impresso l’immancabile concerto dei merli appollaiati sui platani. C’è n’erano talmente tanti che il loro cinguettare diventava assordante.
Poi c’era l’edicola. Anche allora era al numero 51. La vetrina illuminata da un neon a soffitto e tanti giornali e riviste in mostra sugli scaffali, con i fumetti di Tex sullo scaffale in fondo.
Qualche anno fa lo zuccherificio l’hanno chiuso, la strada è stata asfaltata, i birocci non ci sono più e non c’è più nemmeno mio padre.
È morto coricato nel letto di casa sua.
Non ha mai voluto andare all’Ospedale, pregava il dottore di lasciarlo morire in pace, senza aghi e diavolerie.
«Dottore, ho settant’anni, ho una gamba con un cane attaccato che me la sta mangiando, ho il fiato che non mi viene e pure il catetere. Mi lasci morire a casa mia. Una cosa sola chiedo per passare il tempo intanto che aspetto, che mio figlio vada all’edicola a comprarmi il giornale, perché io non sono più capace.»
Ed io, all’edicola, quella che c’è lungo il Viale che porta alla Stazione, il giornale sono sempre andato a comprarglielo, anche dopo che era morto.
Pure le zanzare sono morte, ma ce ne sono altre, uguali.
Sicuramente lontane parenti.
Anche per i merli la vita è cambiata. Molti sono stati uccisi dall’inquinamento, qualche altro dalla fame, quelli rimasti se ne sono andati, forse dalla disperazione.
Anch’io me ne sono andato, ma in un paese lontano, dove le edicole non esistevano e di giornali c’è n’era uno solo. Non c’era bisogno di scegliere.
Là, in quel Paese, era tutto più facile.
Anche per chi scriveva era tutto più facile. Il suo compito era scrivere solo quello che gli veniva dettato da persone che prendevano ordini da altre persone e queste da altre ancora. Le ultime, quelle più in alto, mi avevano detto che portavano sempre la divisa.
Mi sono sempre chiesto il perché ci fosse bisogno d’una divisa per scrivere un giornale.
Forse perché così era tutto più facile.
Il giornale si chiamava “Trabajadores”: lavoratori.
Trabajadores: bel nome!
Mi faceva ricordare il sudore della fronte e i calli alle mani, quelle di mio padre. Erano tanto spessi che quando mi accarezzava io mi scansavo, perché facevano male ma, ugualmente, ero orgoglioso dei calli nelle mani di mio padre.
Il giornale usciva con due edizioni al giorno: al mattino presto e nel primo pomeriggio, por la tarde. Era composto da 2 fogli piegati: 8 facciate. Più che sufficienti per descrivere tutti i fatti del giorno.
Tanto, non accadeva mai niente.
Quello era un paese tranquillo. Di politici corrotti non se ne parlava e di ladri c’è n’erano pochi. Quando accadeva un reato, il colpevole veniva subito arrestato e poi processato.
Pure questo l’ho sentito dire.
Perché sul giornale non ho mai letto una riga che raccontasse di reati, a differenza di quello che accadeva da noi, dove tutti i giorni era la solita storia.
I giornali non venivano venduti in edicola perché, in quel Paese dove sono stato, non c’erano edicole, li portavano a casa o si vendevano per strada. Se uno non lo voleva o non aveva i soldi, poco importava, te lo davano lo stesso, poi, se non aveva voglia di leggerlo, poteva pure buttarlo, non era proibito.
L’importante era che nessuno vedesse.
Era tutto più semplice… molto più semplice.
Qua, se non hai i soldi, il “giornale” non te lo danno e ti guardano pure male, come se essere povero fosse peccato.
Di librerie, invece, c’è n’erano tante, tutte piene di libri e tutte molto vecchie.
Spesso entravo in una di queste librerie, mi piaceva l’atmosfera e l’odore dei libri vecchi. La carta ingiallita dal tempo ed il profumo.
Ah! quel profumo.
Tante vite vissute, tante persone e tante storie.
Non c’è profumo più bello che quello di un buon vecchio libro. Assieme ai libri c’era il bibliotecario, spesso era scalzo, poi pareti scrostate e sale nitrato in quantità. Tutte erano fornite di ventilatore, rigorosamente di fabbricazione sovietica.
In quelle librerie, di libri nuovi se ne vendevano pochi, si vendevano solo libri usati, o si prendevano a “prestito”. Chi voleva leggere doveva accontentarsi di un libro già letto da altri, così si risparmiava sulla carta.
I libri erano molti, c’era solo l’imbarazzo della scelta. C’era quello con la copertina bianca, un altro con la copertina nera, un altro ancora con la copertina bianca e nera. Una cosa sola avevano in comune: tutti parlavano di Rivoluzione.
Anche qua di librerie c’è ne sono tante, i libri sono tutti nuovi, tutti profumano d’inchiostro, ma nessuno parla di Rivoluzione.
Là, tutto era più semplice.
Oggi sono tornato a casa, nella Bassa, dove sono nato, dove tutto mi è familiare, dove posso persino parlare il dialetto e tutti mi capiscono. Quà, se Rivoluzione c’è stata, l’hanno fatta i miei genitori e tutti quelli che come loro sono nati poveri e sono vissuti grazie alla forza dei loro sogni.
Sto percorrendo la stessa strada che tanti anni fa percorrevo in bicicletta assieme a mio padre per andare all’edicola di Viale Gramsci.
Il “nostro” appuntamento quotidiano.
Ora che mio padre non c’è più, ugualmente, tutti i giorni che nostro Signore manda sulla terra, vado all’edicola e compro il giornale.
Per il resto tutto è cambiato.
La strada è più larga, dove c’era la campagna ora ci sono tante di quelle case che faccio fatica a contarle, vedo che la gente va sempre di corsa, come fosse sempre in ritardo o avesse mille cose da fare. Non ero più abituato a vedere gente così indaffarata. Nel Paese dove sono stato, andavano tutti piano, come se il giorno dovesse durare chissà quanto.
È vero, sono tornato, guardo il viale alberato di Viale Gramsci e sento che mi si stringe il cuore.
Oggi è l’undici di Novembre giorno di San Martino. Come tutti i mesi di Novembre degni di questo nome, nella Bassa è calato un nebbione che si può affettare con una lama. La macchina mi sta portando per il Viale che porta alla stazione dei treni, piano, con una lagna simile a quella del somaro.
Ho detto nebbia?
Cacchio!
Erano le 10 del mattino e faticavo a vedere i fusti dei platani che fiancheggiavano il viale.
Proprio come il giorno che è morto mio padre.
Poche le macchine in giro.
Avevo appena lasciato Viale Martiri della Libertà e svoltato a sinistra, davanti all’edicola di Milena e Corrado parcheggiai in mezzo alla nebbia. D’estate, ad attendermi c’era l’afa ma, ugualmente, nebbia od afa, la mia edicola era sempre là, aperta, con i miei due amici, pazienti e disponibili, ad augurarmi il buongiorno e ad ascoltarmi mentre scambiavamo due chiacchiere.
Di giornali ce n’erano a volontà, potevo scegliere quello che volevo, ma io ho sempre comprato quel “giornale”, quello che comprava mio padre.
Se non avevo i soldi, poco importava, Milena me lo dava lo stesso, l’avrei pagato il giorno dopo.
Proprio come in quel paese lontano. La sola differenza, era che il giornale qua, a casa mia, era sempre pieno di brutte notizie. Veniva la voglia di lasciar perdere. Tanto, anche se non lo leggevo, nessuno mi avrebbe chiesto il perché.
Qualche giorno prima che mio padre se ne andasse, mia madre ha voluto che andassi a chiamare il prete. Quand’è arrivato, ha trovato mio padre con gli occhi chiusi ed il giornale aperto tra le mani. Gli diede un’occhiata storta. Al prete quel giornale non piaceva, era un giornale di sinistra.
A mio padre la Benedizione non gliela diede, a me, invece, lasciò un Santino con l’effige di San Martino.
Lo conservo ancora.